Si sa, il caffè in Italia è una cosa seria. Mica si beve, si prende.
È una pausa, un rito, un confine mentale tra prima e dopo. Per questo, ogni evoluzione tecnologica che lo riguarda ci tocca da vicino. Negli ultimi anni, sempre più persone hanno messo da parte la moka per abbracciare l’efficienza delle capsule e delle cialde.
Il motivo? Semplice: schiacci un bottone, aspetti pochi secondi, sorbisci. Pulito, rapido, preciso. Un piccolo bar personale in cucina.
Ma dietro questa comodità si nasconde una domanda a cui in tanti rispondono con un’alzata di spalle: e adesso, dove la butto questa capsula?
Una domanda tutt’altro che banale.
Piccoli gesti, grandi conseguenze
A livello individuale, buttare una capsula usata sembra un gesto irrilevante. Una goccia nel mare. Ma proviamo ad allargare lo sguardo: due caffè al giorno fanno oltre 700 capsule o cialde all’anno. Moltiplichiamole per milioni di consumatori. Il risultato? Una valanga di rifiuti. Non biodegradabili. Non sempre differenziabili. E troppo spesso destinati all’indifferenziato.
È qui che il sistema si inceppa. Perché dietro una tazzina perfetta si accumula un problema ambientale enorme. E se vogliamo continuare a berlo senza sentirci complici di un disastro a lungo termine, dobbiamo imparare a scegliere, usare e smaltire con più consapevolezza.
Cialde e capsule: differenze che contano
A prima vista sembrano simili. Entrambe monodose, entrambe pensate per garantire lo stesso sapore ogni volta. Ma dal punto di vista dello smaltimento, non potrebbero essere più diverse.
Le cialde sono leggere bustine di carta contenenti caffè macinato. Niente plastica, niente alluminio. Solo cellulosa. E quindi, la risposta è facile: si buttano nell’umido. Proprio come le bustine del tè. Compostabili, semplici, senza sorprese.
Le capsule, invece, sono un altro pianeta. Ci sono quelle in plastica, quelle in alluminio, e quelle compostabili (vere, certificate, non solo “bio” a parole). E ognuna ha una destinazione diversa. O meglio: avrebbe.
Sì, ma dove si buttano?
Le cialde, come dicevamo, vanno nell’organico. Ma attenzione a tutto quello che le circonda: la scatola di cartone (che va nella carta), la bustina singola (che spesso è in plastica, e va nel contenitore adatto). In sostanza: cialda nell’umido, tutto il resto… leggete bene l’etichetta.
Le capsule compostabili (e qui serve davvero leggere con attenzione) si possono buttare anch’esse nell’umido solo se sono certificate secondo gli standard OK Compost o EN 13432. “Biodegradabile” scritto in grande, senza certificazione, non vuol dire nulla. È marketing, non garanzia.
E le altre? Quelle in plastica e alluminio? Purtroppo – ed è qui che il sistema diventa illogico – non sono considerate imballaggi dalla normativa europea. Questo significa che non vanno né nella plastica, né nell’alluminio. Vanno, banalmente, nell’indifferenziato.
Una contraddizione evidente, ma al momento è così.
Riutilizzarle? Possibile, ma non per tutti
Se l’idea di produrre rifiuti vi dà fastidio, una soluzione esiste: le capsule ricaricabili. Sono piccoli cilindri in acciaio o plastica rigida che potete riempire con il caffè che preferite. Si lavano, si riutilizzano e non si buttano. L’impatto ambientale? Praticamente azzerato.
Certo, richiedono un po’ di manualità e qualche minuto in più. Ma se l’ambiente vi sta a cuore (e magari vi piace anche l’idea di personalizzare la miscela), potrebbe essere la svolta.
Intanto, il caffè diventa sempre più caro
Nel frattempo, il panorama globale del caffè sta cambiando. E non in meglio. Secondo un recente rapporto FAO, nel 2024 il prezzo del caffè è aumentato del 38,8% a livello mondiale. Un’impennata legata in gran parte alle condizioni climatiche estreme che hanno colpito i principali Paesi produttori: Brasile, Vietnam, Indonesia.
- In Vietnam, il clima secco ha tagliato la produzione del 20%.
- In Indonesia, piogge eccessive hanno distrutto gran parte del raccolto.
- In Brasile, il caldo ha fatto crollare le stime da un +5,5% previsto a un -1,6%.
Il risultato? Caffè meno disponibile, costi più alti, e (di nuovo) un campanello d’allarme sul legame tra clima e consumi quotidiani. La tazzina che beviamo ogni giorno ha un’origine complessa e fragile, che dipende da piccoli coltivatori, da ecosistemi sempre più instabili e da una logistica globale esposta a mille rischi.
Allora, che fare?
Non serve diventare estremisti o rinunciare alla comodità. Ma vale la pena aggiustare il tiro. Magari iniziando con piccole scelte:
- Provare le cialde compostabili, che fanno il loro lavoro e si smaltiscono senza stress.
- Scegliere capsule certificatamente compostabili, evitando quelle in plastica dura.
- Usare, quando possibile, capsule ricaricabili.
- Se avete la moka, rispolveratela: fa ancora un gran bel caffè. E dura una vita.
- Informarvi sui punti di raccolta delle capsule esauste (alcuni supermercati o i negozi dei marchi più grandi li offrono).
Ogni piccolo gesto conta. Perché il caffè, per quanto piccolo, è un affare enorme: 200 miliardi di dollari l’anno, milioni di lavoratori, tonnellate di CO₂ emessa lungo la filiera. E tutto questo non scompare quando premiamo “start” sulla macchinetta.
Il caffè di domani? Buono anche con la terra
Non serve essere ambientalisti convinti per capire che l’aria è cambiata. Letteralmente. I segnali sono chiari: prezzi in salita, risorse sotto stress, produttori in difficoltà. Il cambiamento climatico non è più una teoria, è una realtà che colpisce anche il nostro espresso.
Ma non tutto è perduto. Possiamo continuare a gustare il caffè, se impariamo a farlo in modo più intelligente. Scegliendo meglio. Buttando bene. Riciclando quando si può. E magari, iniziando a chiederci: quanto pesa davvero il caffè, oltre il suo prezzo al chilo?
Fonti: